Il durissimo lavoro delle raccoglitrici di olive
Le raccoglitrici di olive, tutte donne, uscivano di casa all`alba e percorrevano
chilometri, a piedi oppure stipate, come tanti polli in una stia, nei camion dei caporali. Raggiungevano gli oliveti dei ricchi
proprietari borghesi, dove lavorano, dalle dieci alle tredici ore al giorno, a seconda della stagione. Tornate a casa, le
attendevano i lavori domestici.
Quelle senza nessuno a cui lasciare i bambini si portavano i più piccoli nei campi, mentre i più grandicelli,
tolti presto dalla scuola, partecipavano già alla raccolta. Lavoravano scalze, sempre chinate a terra, e venivano pagate
a cottimo. In olio all'inizio della raccolta, quella più scarsa, e poi in danaro.
Per ogni misura, che equivale a circa 12 chili di olive ovvero a una capacità di 20 litri, ottenevano un litro di olio che
veniva consumato in casa. Nella raccolta successiva, più abbondante, guadagnavano denaro. Il salario contrattuale prevedeva
64,40 lire l’ora, ma veniva spesso applicata una specie di cottimo, che prevedeva una paga di 300 lire al giorno.
Il lavoro comprendeva, anche il trasporto dei sacchi pesanti, che contenevano le olive
raccolte.
A mezzogiorno consumavano una modica colazione all’aperto ed il più delle volte lo facevano senza smettere di lavorare.
Vita dura, quella delle raccoglitrice di olive, senza alcuna assistenza sanitaria.
Queste donne si ammalavano di reumatismi, bronchiti e artrosi; malattie molto comuni, a causa della posizione forzata che le
donne erano costrette a mantenere per tutta la giornata e del fatto che camminavano scalze.
Esse non potevano permettersi di essere curate, perchè i farmaci erano troppo costosi.
Una malattia molto diffusa era causata dall’Ancylostoma duodenale, parassita che penetrava dalle piante dei piedi e si infiltrava
nel sangue, causando anemia, disturbi gastroenterici e turbe nervose.
La transumanza è il complesso delle migrazioni stagionali, delle greggi,
delle mandrie e dei pastori, dai pascoli di pianura a quelli delle località montuose e viceversa.
È quello che accadeva in modo significativo fino agli anni ’50, nel nostro territorio, dove nel mese di settembre,
al termine dell’estate, avveniva lo spostamento, senza l’utilizzo di mezzi meccanici di trasporto, degli animali dai
pascoli estivi che si svolgevano nei piani dello Zomaro del comune di Cittanova,
nel Piano Carestia
e nel Piano di “Rumbaca”, nel territorio montano del comune di Molochio, verso i pascoli pianeggianti; la zona di Rosarno,
le casette, la zona di San Ferdinando.
In questi spostamenti sosta obbligata era Cittanova ed il suo “Campumandru”,
per l’alloggiamento delle greggi nelle vicinanze del centro abitato,
nell’allora zona libera da costruzioni esistente nelle adiacenze del tratto iniziale dell’attuale via Florimo, imbocco dalla
nazionale, nei pressi dell’ex frantoio Valensise.
Questo avveniva, soprattutto per i pastori cittanovesi, nelle settimane a cavallo
della terza domenica di settembre.
L’occasione veniva data dalla fiera degli animali approvata il 25 dicembre 1843 con decreto da Ferdinando II di Borbone,
dalla festa di San Rocco annunciata con il tradizionale "luminario" di inizio novena.
Le persone anziane ancora ricordano il passaggio delle greggi, delle vettovaglie e di tutti gli annessi, lungo la
strada nazionale in direzione ovest; greggi che attraversavano il nostro centro abitato diretti verso nuovi pascoli.
Sullo Zomaro,
anche oggi, vi è la presenza dell'erica (erica scoparia oppure "brughiera" ) dalla quale, nel passato, veniva estratto il
ciocco che, dopo essere stato squadrato, essiccato, bollito e torchiato da sapienti artigiani cittanovesi, le industrie ottenevano
il fornello delle pipe.
La radice dell’ erica arborea, comunemente chiamata
radica, è sicuramente tra le varie radiche, quella più adatta alla produzione delle pipe poichè è di
legno duro e molto resistente al calore.
L'estrazione del ciocco dal terreno era una operazione molto delicata che veniva
eseguita da esperti raccoglitori (i “cioccaioli”) che, con l’utilizzo di piccole zappe scavavano il terreno con estrema cura, per
non danneggiare il ciocco. Il ciocco veniva liberato dalle appendici vegetali e dalle parti cattive e, dopo essere stato pulito,
veniva annaffiato abbondantemente con acqua per evitare lo screpolamento ed inoltre veniva ricoperto di terra umida o di frasche
per proteggerlo dall'aria e dal sole.
L’aria e il sole lo seccavano e lo spaccavano impedendogli di restare verde e fresco, in attesa del trasporto.
I ciocchi dopo essere stati raccolti venivano portati in segheria dai raccoglitori, che percepivano un compenso per il loro lavoro
a seconda del peso e della qualità della radica raccolta.
In segheria i ciocchi venivano tagliati per ricavare gli abbozzi, i pezzi di legno di forme e dimensioni varie da cui si “sbozzava”
la pipa.
Dopo il taglio gli abbozzi venivano gettati in grandi caldaie di rame, dove venivano fatti bollire per dodici ore di seguito.
L’acqua bollente aveva il compito di sciogliere i succhi, le resine e il tannino, impedendo così al legno di acquisire un
sapore amaro. L’acido tannico contenuto in tutte le radici, ma in particolare nella radica di erica, è infatti il maggiore
responsabile del cattivo sapore di una pipa soprattutto alle prime fumate. La bollitura, eliminando la linfa, evitava le spaccature
del legno, conferendogli pastosità e omogeneità.
Infine, dopo la bollitura, le segherie vendevano la radica, appena bollita oppure semistagionata, alle fabbriche per la produzione
e la vendita delle pipe.
Cittanova, Antica Segheria per la produzione degli abbozzi per la fabbricazione delle pipe