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Viaggio Attraverso le abitudini...

... e le tradizioni di una volta.

Cittanova Largo Calvario - DisegnoVia Locri, Via Cimarosa, Largo Savoia (prima dell'edificazione dell' Ufficio Postale)

LA CASA

Le case di una volta, con particolare riferimento a quelle del secolo scorso, variavano per configurazione, numero di stanze, ricchezza di arredamento, secondo le possibilità dei proprietari.

la casa di una voltaLa casa di una volta

La maggior parte della popolazione viveva in case umide e malsane, dal tetto molto basso formato da grossi travi su cui poggiavano i "ciarvuna" (franc. chevron "correntino su cui si pongono le tegole") che sostenevano i "ciaramidi" (gr. keramìdion "tegola"). Nelle case dei più poveri come ciarvuna si usavano canne disposte a fasci.
Mancava generalmente il soffitto e sotto le tegole si disponevano "i cannìzzi", cioè canne lavorate e pazientemente intrecciate. Nelle giornate di cattivo tempo, con vento e pioggia, spesso l'acqua piovana penetrava dalle fessure del tetto, rendendo ancora più disagevole l'abitazione. Nel tetto veniva praticata un'apertura, "u ciarnàru" (lat. Iucernarius "produttore di luce"), costituito da una tegola posta di traverso e facilmente spostabile, da cui entrava l'aria e fuoriusciva il fumo.
I muri si costruivano con blocchi di tufo e "taju" (franc. medioev. tai "fango"); il pavimento era in terra battuta. Le case della gente più povera erano costruite con blocchi di terra impastata con paglia, detti "bìsuli" (gr. bésalon "mattone"). Scarsamente aerate, poco luminose per mancanza di finestre, si componevano di uno o due vani, utilizzati per tutte le necessità quotidiane.

Il corredo della nonna a cura del Centro Diurno - particolareIl corredo della nonna

Importante lo spazio riservato alla camera da letto, essendo il luogo dove si svolgevano i momenti più memorabili della vita: nascita, battesimo, matrimonio, morte. A volte nella casa trovavano posto anche il maiale e la capra.
La porta in legno massiccio, ruotava intorno ad un "puntalòru" o "stantalòru", ben infisso nel terreno.
Era divisa in due battenti disposti in senso longitudinale, dall'interno si chiudeva "cu serràgghju", cioè con una robusta spranga di ferro.
L'interno era molto semplice. In un angolo c'era "u focularu", dove si accendeva il fuoco, per cucinare o riscaldarsi, e tutt'intorno il mobilio: letto, "cascia", "casciuni", alcune sedie, "a buffetta" (franc. buffet "tavola su cui si mangia").

cortaredi"Cortare"

Appoggiati a qualche sostegno, attaccati al muro o riposti nelle "gazzàne" (Ar. hazana "nicchia nel muro") erano gli utensili vari: la "marmitta i landa, u testicedu, a tiana, a cucchiara i lignu, u mortaru cu mandàli, u crivu, a crisàra ecc.".
In un angolo la giara dell'olio, la giara delle olive in salamoia, o cosiddette olive "mbite" (Cfr. fr. fruits confits), i "cugnetti da sajimi" (vasi contenenti lo strutto).
Il letto, abbastanza grande, perché doveva accogliere buona parte della famiglia, era formato dai "trispita" di ferro, una specie di cavalletti sui quali si ponevano delle tavole, che sostenevano i materassi di paglia d'orzo o di foglie di pannocchie di granturco, "scarafòggji". La paglia d'orzo, che veniva rinnovata ogni anno, perché si sminuzzava, quando era fresca faceva venire "u scutulu", cioè l'orticaria, ed era un grattarsi continuo sulla pelle, che si irritava e si copriva di piccole rosse protuberanze. Abbastanza frequentemente sotto il pavimento venivano scavati "i catoji" (gr. katogheion "sotterraneo"), che servivano come deposito e a cui si accedeva tramite un'apertura detta "catarràttu" (gr. katarractes "botola"). Accanto alla casa veniva allestito, in forma rudimentale, uno spazio per il pollame, "u gadinaru" e per il maiale, "a 'zzimba".

In aperta campagna c'erano "i pagghjàri", dove dimoravano i contadini durante il periodo del raccolto o i pastori quando conducevano gli animali al pascolo. Avevano le pareti costruite con pali di legno, attorno ai quali si faceva un rivestimento di felci e foglie. Il tetto, sorretto da un palo più grosso situato al centro della capanna, era anch'esso ricoperto con foglie (e rami frondosi). La porta d'ingresso, fatta di canne intrecciate, dava aria e luce all'ambiente. All' interno non c'era alcun letto, si dormiva su paglia o felci messe per terra o su una coperta.

lavatoio comunale cittanovaEx lavatoio (Contrada Gabella)

Non essendoci ancora la corrente elettrica, la luce di sera nelle case era distribuita con parsimonia. Si faceva largo uso di lampade ad olio, fumose e maleodoranti. Per riscaldarsi si accendeva il focolare e, quando la legna scarseggiava, ci si riuniva, se c'era, al tepore della stalla o si andava a letto col calare del sole. Mancavano i servizi igienici e l'acqua corrente, percui la pulizia era scarsa. Per i propri bisogni gli uomini si recavano in aperta campagna, "a carrera" (in un viottolo), o "arretu a sipala" (dietro la siepe).
Le donne si servivano di un vaso di lamiera smaltata o di terra cotta, "u cantaru" (gr. kantharos "vaso da notte"), detto anche "pisciaturi", "zzipèppi", "rinali".
Per rifornirsi d'acqua, la si andava a prendere alla sorgente o alla fiumara "ca cortàra", grande brocca a bocca larga, e con altri recipienti.

Alla fiumara era necessario andare anche per lavare i panni o la lana. La biancheria da lavare veniva prima "sciammarata", cioè lavata con sapone fatto in casa con "sajìmi, murga d'ogghju e putàssa", ma non veniva risciacquata. Si disponeva poi in una grande cesta di canna "u còfanu da vucata" , e si copriva con un panno. Nei decenni successivi il lavaggio avveniva nei paesi o vicino alle sorgenti, in appositi lavatoi comunali.

A parte, in una grande caldaia si bolliva acqua e cenere che, a poco a poco, con un boccale di terra cotta si versava sui panni da lavare. Dopo alcune ore si portavano da risciacquare nell'acqua del fiume e si stendevano al sole sul greto ciottoloso.
Non essendoci ferri da stiro, i panni si piegavano e si ponevano sotto i materassi; più tardi si fece uso di uno strumento forato ai lati, con la base ben levigata, che si riempiva di braci e si passava sui panni umidi.

sapone fatto in casa cittanovaLa ebollizione del sapone

La preparazione del sapone avveniva in casa ed a tale scopo si utilizzava olio d'oliva ad alta acidità, i "murghi", e grassi del maiale, "sajìmi", che si faceva bollire diluito per la metà del suo peso con l’acqua, con agguinta di soda caustica, "potassa", nella "coddara" messa sul fuoco, appoggiata al tripode di ferro.

I murghi (dal greco Amòrghe, che letteralmente vuol dire amaro, amarostico, dal sapore forte; in italiano "morchie") sono residui della lavorazione di spremitura delle olive nel processo di produzione dell'olio, non adatti ad essere consumati a tavola.

Al termine della ebollizione, dopo aver lasciato raffreddare il prodotto per un giorno in opportuni recipienti, si procederà al taglio del sapone con un attrezzo opportuno, u "serragghiu". La soda veniva aggiunta nella proporzione di un chilo per ogni cinque di olio ed acqua e durante la cottura il tutto veniva mescolato con un lungo mestolo di legno fino a quando non "filava". Il sapone preparato in casa oltre che per lavare i panni veniva utilizzato anche per l'igiene personale ed era ritenuto molto efficace contro la forfora.

Diversa era l' abitazione rurale. Situata al centro di un grande appezzamento di terreno, aveva annessi stalle, fienili, magazzini.

I muri erano di pietra e calce, materiale che si trovava in abbondanza nel greto delle fiumare. La calce si ricavava da una pietra detta "palumbina", che veniva messa nella "carcara" (lat. calcaria "fornace per cuocere la pietra calcarea"), per farla cuocere e sbiancare. Successivamente veniva posta in una fossa piena d'acqua, per farla sciogliere. Il tetto della casa rurale, generalmente a due spioventi, era ricoperto da tegole. Il pavimento era rivestito di mattonelle di terra cotta, fatte a mano con l' uso di apposite forme, spesso asimmetriche, perché deformate dalla cottura. Questi mattoni ben riscaldati e avvolti in uno straccio di lana, venivano anche usati per riscaldarsi i piedi nelle gelide notti invernali e, appoggiati ai piedi o sul petto, per curarsi dalle malattie da raffreddamento. Erano usati anche contro l'artrosi e i reumatismi.


interno della casa di una voltaInterno delle case di una volta

Una scala esterna conduceva al piano superiore della casa. Alla cucina, situata al piano terreno, si accedeva da una porta esterna ad un battente. Ad una parete della cucina stavano addossati il focolare e il forno a forma di cupola, costruito in mattoni e ricoperto con malta di terra rossiccia. In alcune case rurali esisteva anche una torretta per il nido dei piccioni. Diversa, invece, la casa dei ricchi, sempre a due piani. Vi si accedeva da un ingresso molto spazioso; una scala interna portava al piano superiore. Le stanze, distribuite alla rinfusa, avevano funzioni ben distinte. C'era la stanza da letto, quella da pranzo, la cucina piuttosto piccola, occupata in parte da un forno in muratura. I pavimenti erano rivestiti di mattonelle di terracotta e le pareti ornate di dipinti di vari colori. Logge e balconi davano aria e luce a tutti gli ambienti. I mobili erano funzionali e raffinati, di legno pregiato con maniglie di bronzo o addirittura cesellate in oro. Per il riscaldamento e l'illuminazione si faceva uso di bracieri e candelabri in bronzo. In qualche abitazione, in corrispondenza di un 'apertura praticata nel soffitto, era collocata una vasca per la raccolta dell'acqua piovana.

Alcune famiglie adibivano una o più camere esclusivamente all 'allevamento del baco da seta, che, sino al primo quarto del nostro secolo, veniva praticato sia in paese che in campagna. Al centro della camera veniva costruita un'impalcatura, "l'anditu", a quattro o cinque piani, che sostenevano i graticci su cui venivano allevati i bachi.
Particolarmente suggestivo era il momento dello "scunocchiu", che consisteva nel togliere i bozzoli del baco da seta dalle "cunocchie ", cioè dal bosco dove il baco aveva intessuto il bozzolo. Per l'occasione si ricorreva all'aiuto di amici e parenti, si preparava un pranzo speciale e si stava assieme in allegria.

(Notevole importanza aveva anche la coltivazione del gelso per l’allevamento del baco da seta. Non c'è Protocollo Notarile che non annoti, nella consistenza di un podere in vendita o in dotazione, il numero delle piante di gelso di cui il fondo era dotato, segno di una diffusa propensione alla sericoltura. Possiamo affermare che fino agli anni ’30, e parte degli anni ’40, Il baco da seta veniva allevato, nel nostro territorio, non solo dai contadini ma anche dalle famiglie benestanti e forniva la seta, anch'essa lavorata in casa dalle donne pazienti e laboriose.)