Come sempre accade, il modo di vestire nel passato rifletteva condizioni sociali, economiche, atteggiamenti e modi di pensare della gente.
Gli abiti, anche se di foggia piuttosto complicata almeno per le donne, non avevano alcuna pretesa di eleganza per la maggior parte della popolazione.
Gli uomini ne possedevano quasi sempre due, che usavano sino quando non si rendevano inservibili, anzi rattoppati passavano da padre in figlio. Vi era quello abituale e quello delle grandi occasioni di stoffa più pregiata, che veniva custodito con molta cura.
La famiglia patriarcale di una volta era in genere autosufficiente e traeva dall'agricoltura e dall'allevamento quanto era necessario per vivere, perfino la materia utile per la confezione di stoffe e vestiti.
Crescevano rigogliosamente nelle campagne piante di cotone, lino e canapa, che fornivano fibre molto resistenti e confortevoli, filate col fuso e tessute al telaio dalle donne pazienti e laboriose. Nei luoghi incolti e lungo le siepi abbondava la ginestra, da cui si poteva ricavare una fibra usata per ricavare stoffe molto resistenti, ma di qualità meno pregiata.
Le pecore fornivano, oltre al formaggio, lana in abbondanza per indumenti e coperte. Il baco da seta, detto "notricàta", allevato non solo dai contadini ma anche dalle famiglie benestanti, forniva la seta anch'essa lavorata in casa.
In seno ad una società di stampo e predominio maschile, la donna non aveva possibilità di scelta neanche nel campo dell'abbigliamento. L'uomo esigeva che essa fosse casta e pudica e a lei non era concesso lasciar nuda alcuna parte del corpo.
Le più fortunate, a cui era concesso, nei giorni di gran calura, bagnarsi nell'acqua del mare, dovevano farlo con una lunga tunica, che le copriva sino ai piedi, lontano dagli sguardi maschili, essendo agli uomini interdetta la zona dove prendevano il bagno le donne.
Solo i bambini piccolissimi potevano stare assieme alle proprie madri.
L'abbigliamento femminile consisteva in lunghi vestiti che si componevano di vari pezzi : "a saja" Prov. saia "sottana''), arricciata in vita, "cogghjùta a gadi" , o con pieghe, sopra la quale veniva indossato) un grembiule, "faddali" (ant prov faudal, da germ. falda "falda"), di uguale lunghezza che la donna portava per tutta la giornata
Completava il vestito un corpetto aderente "u jippùni", (ar. gubba "specie di sottana"), dalle grandi e larghe maniche, che si restringevano al di sotto del gomito e, su di esso, un corto gilè, " u mbustu ", reso rigido da stecche e allacciato sul petto da cordoncini incrociati. D'inverno sopra il vestito la donna portava un ampio scialle, che le ricopriva gran parte del corpo.
Sui capelli, divisi in due bande, formanti trecce avvolte attorno al capo o, con forcine di ferro o di osso "ferretti e ferrettini" tenute ferme sulla nuca o un pò più in su "a curuna", portava un fazzoletto di panno più o meno pesante, " u muccaturi" (cat. mocador, id.), o una tovaglia di lino, che le copriva le spalle e, nei giorni di festa, la "gonnella", una gonna di seta che rivoltava sulla testa.
Sotto la "saja" le donne umili indossavano più di una sottana, l'ultima delle quali era una vera e propria gonna.
In alcune località, infatti, le donne usavano rialzare la "saja" e arrotorarla sulla schiena, mettendo in mostra la gonna, che vi stava sotto.
Le ricche signore indossavano vestiti, che riproducevano più o meno lo stesso modello.
I vestiti, però, erano lavorati con più gusto e raffinatezza, spesso ornati di merletti e trine e ricamati con arte.
Un ruolo importante, per conferire loro eleganza, esercitavano gli accessori. Indispensabili erano i guanti di pelle finissima per l'inverno, di pizzo e traforati per l'estate. Coprivano il capo con un cappello con una veletta, che arrivava fino
al mento e dava al loro viso un grande fascino. Non mancava la borsetta in cui custodivano i vari oggetti personali. Completavano l'abbigliamento graziosi ombrellini, che le signore benestanti portavano in ogni occasione. Amavano anche ornarsi di gioielli, quali lunghi orecchini e anelli di squisita fattura, spille, collane.
Le contadine in genere stavano a piedi nudi sia in casa che fuori. Indossavano le scarpe solo quando dovevano recarsi in paese anzi, abituate a stare scalze, facevano il tragitto a piedi nudi e mettevano le scarpe solo quando arrivavano in
prossimità delle abitazioni.
L'abbigliamento maschile generalmente consisteva in una camicia bianca di tela spessa su cui gli uomini indossavano un gilè, detto "corpettu", senza maniche e abbottonato davanti. Portavano calzoni "d'arbasu" (ar. al-baz "specie di panno"), confezionati con panno grossolano di color nero, molto larghi e lunghi fino al ginocchio, oppure " i carzi ca strefa" (germ. stremp "staffa"), caratterizzati dalle staffe delle calze di lana senza "peduni" (senza piede), che passavano sotto la pianta del piede.
Avevano giacche corte di fustagno o di velluto chiamate "ccuppa spalli", un berretto di lana lungo, che scendeva sulle spalle, e ai piedi i "calandredi", sandali formati con un unico pezzo di pelle tenuto stretto da cinghie.
Gli uomini di condizione sociale più elevata indossavano vestiti, che si componevano di pantaloni lunghi, giacca abbottonata in alto con tre o quattro bottoni accompagnata dal gilè su cui spiccava la catena dell'orologio da taschino.
Sotto la giacca era d'obbligo la camicia bianca di seta o cotone. Avevano baffi molto all'insù, che conferivano loro virilità e autorevolezza.
Le abitudini alimentari erano assai diverse da quelle di oggi.
L'alimentazione, semplice e insufficiente, si basava sui prodotti che la terra offriva. Se una brutta stagione, però, rovinava il raccolto, si profilava lo spettro della fame. Durante la giornata si consumavano generalmente tre pasti. Al mattino si consumava una colazione frugale detta "u morzèdu", che deriva probabilmente dallo spagnolo "almuerso", primo pasto della giornata.
Il pranzo era quasi sempre una seconda colazione ed era tanto frugale, che si consumava spesso in piedi. Si mangiava con le mani in un unico piatto di creta e le dita venivano pulite di tanto in tanto con pezzetti di pane.
Il pranzo principale era quello della sera, al ritorno dal lavoro dei campi, quando alla luce incerta del lume ad olio si consumavano i consueti cibi.
Cibi quotidiani di gran parte della popolazione erano le erbe di campo e i legumi cucinati sul fuoco in recipienti di terracotta ("pignatu", ''pignatèdu'', "tiana" ).
Le erbe spontanee che generalmente si consumavano erano: "cicoria comune ", "mùhandi", "zuche ", "barba i prèviti", "pedi i corvu", "sculìmbri","cavulucci","sinapi", "gattuzzi", "finocchju servaticu", "cicòriu catanzarìsi", "vurraini", "carduni", "secri i margiu", "anniti". Si faceva, quindi, uso di ogni erba commestibile.
Particolarmente ricercati " i sculìmbri" (gr. volg. skolùmbrion "specie di cardo mangereccio di cui si consumava solo il gambo, spogliato con un colpo deciso della mano, cotto assieme ai fagioli").
Di domenica si usava mangiare la pasta col pomodoro o con olio, aglio, peperoncino e pan grattato, la cosiddetta "pasta e mudica".
La carne era presente abitualmente solo sulla tavola dei ricchi, che avevano un'alimentazione sostanziosa e varia, mentre i poveri solitamente facevano uso di carne solo quando una bestia fosse precipitata in un burrone, perché potevano comprarla "a basso macello".
Mangiavano carne, per lo più di ovini e caprini, nelle grandi occasioni, quali battesimi e matrimoni.
Per la circostanza la pasta, che costituiva sempre il primo piatto, veniva cotta in grandi caldaie e poi colata in enormi cesti di canne intrecciate.
Largo era l'impiego dei legumi, che nella dieta dei poveri sostituivano la carne. Si consumavano fagioli, lenticchie, piselli, fave, ceci, cicerchia.
Il pane non mancava mai e solitamente veniva preparato in casa.
Il più ricercato e costoso era il pane di grano, ma abbastanza diffuso era anche quello fatto con farina di granturco "a pizzàta" di cattivo sapore e poco digeribile.
Si faceva uso anche di pane d'orzo o di grano "jermànu", una specie di segale dai chicchi piccolissimi dai quali si ricavava una farina scura, che si usava anche per confezionare pasta e dolci.
"Mègghju nigru pani ca nigra fami", sentenziava un antico detto popolare.
Fare il pane in casa era quasi un rito a cui partecipavano non solo le donne della famiglia, ma anche le comari del vicinato.
Si iniziavano i preparativi la sera. Le massaie, dopo avere lavato accuratamente le mani e cinta la testa con un fazzoletto, si facevano il segno della croce, setacciavano la farina alla quale univano il lievito, ("u levatèdu" ), che scioglievano in acqua tiepida. Sul "levatèdu", piccolo pane di pasta cruda acida conservato con l'olio, che passava da comare a comare, veniva incisa una Croce con un arnese chiamato "ràsola", in quanto il pane era ritenuto grazia di Dio.
Impastavano, quindi, il lievito cosi disciolto in circa un quinto della farina destinata al pane, lavorando bene l'impasto, perché si amalgamasse.
Preparavano cosi "u levàtu", che mettevano a riposare per almeno tre ore, perchè si gonfiasse.
Il giorno dopo si alzavano di buon'ora, aggiungevano la rimanente farina all'impasto della sera prima e lavoravano la pasta per circa tre ore, unendovi il sale e l'acqua necessaria.
Quando la pasta era pronta, la dividevano in pezzi a cui davano forma tondeggiante, allungata o a ciambella. Mettevano, quindi, le forme cosi preparate nel letto a lievitare tra due panni, con sopra delle coperte di lana.
Le mamme, intanto, si premuravano di lavare la faccia ai figli con l'acqua usata per pulire la madia ("limba", incrocio tra gr. Iyma "sudiciume" e nìmma "acqua per lavarsi") nella convinzione che, cosi facendo, la loro pelle si mantenesse liscia e sana.
Un'ora prima che il pane fosse pronto per la cottura, si accendeva il forno. Quando la bocca di esso diveniva bianca, significava che si era raggiunta la temperatura adatta.
Si toglievano le braci, parte delle quali erano tenute da parte per essere messe davanti alla "chiudenda", la lastra di ferro, che chiudeva la bocca del forno.
Poi con una specie di scopa fatta di stracci bagnati, "u cadipu" (gr. kàllypon "scopa"), si puliva bene il forno delle ultime braci e della cenere con movimenti veloci, perché il calore non si disperdesse.
Affinché il pane venisse gustoso e croccante, era di buon auspicio infornare per primo uno a forma di Croce e bruciare con i fasci dei rami anche le "tortàgne", cioè i legami vegetali con cui i fasci erano legati.
Grande la gioia dei bimbi che, appena sentivano la fragranza del pane, che usciva cotto dal forno, accorrevano, per avere la ciambella riservata a loro, "a curudèda".
Tutti insieme si mangiava "a zzipularìa", cioè il pane ancora caldo preparato con olio, aglio, origano e peperoncino.
Nel periodo successivo alla macellazione dei maiali, si usava mangiare il pane caldo con "i micciunàti", i ciccioli, conservati dentro vasi di terracotta smaltati.
Era anche usanza dare in dono un pane caldo o una ciambella ai vicini di casa.
L'alimentazione, inoltre, variava a seconda delle occasioni e delle ricorrenze dell'anno. Per il cenone di Natale era d'obbligo mangiare tredici cibi diversi.
Tra le specialità natalizie "i zzìppuli", lunghe e soffici frittelle di farina lievitata con dentro un pezzetto di acciuga salata; i "sammartìni" dolci fatti di pasta frolla ripieni di uva passa, noci, mandorle, miele, vino cotto, cannella e altri aromi;
"a pignolàta ", pasta di farina, uova e zucchero, filata e tagliata a piccoli pezzi, che venivano cotti in olio abbondante e poi mescolati assieme in una padella con miele ben caldo, perché legassero;
Frittelle speciali e molto apprezzate erano le "nacàtole", che si componevano di farina, uova, zucchero e lievito.
Per tutto il periodo della Quaresima nessuno mangiava carne e di venerdì digiunava. Sabato Santo, quando suonava la Gloria, si iniziava il salame e si mangiavano le tradizionali "sgute", specie di ciambelle con sopra delle uova, che venivano cotte nel forno in occasione della Pasqua.
Nel mese di gennaio o di febbraio si uccideva il maiale, che con tanta cura era stato allevato e protetto per un intero anno.
Era un animale prezioso perchè forniva il companatico alla famiglia per un intero anno.
("Cu si marita è cuntentu nu jòrnu, cu ammazza u porcu è cuntentu n'annu").
Perché non venisse rubato, abbastanza frequentemente veniva tenuto legato durante la notte sotto il letto matrimoniale. Da qui la necessita di fare dei letti molto alti.
Sacrificato l'animale, di esso si utilizzava tutto. Con la sua carne si preparavano "sarzizzi, supprezzàti, capicòdi, bucculàri, lardu, frittuli".
Una parte della carne, sia grassa che magra, veniva salata e messa in salamoia ("saliprìsa", presa dal sale) con sopra dei pesi in grandi vasi di terracotta, detti "cugnetti". Era una riserva preziosa per le necessita della famiglia.
Il 6 dicembre, giorno di S. Nicola, si mangiava "pruzia" grano cotto come si cuociono i legumi. In altre località questa minestra di grano si mangiava il 13 dicembre, giorno di S. Lucia La vigilia di tale giorno si metteva il grano ad
ammorbidire in acqua e si credeva che S. Lucia passasse attraverso il camino per orinarvi sopra e cosi benedirlo.
Tra le specialità alimentari meritano di essere ricordati i pomodori secchi farciti di olive, capperi, aglio, basilico e conservati sott'olio.
Pregiati i fichi secchi imbottiti con mandorle, noci e scorza di linone o di cedro, che venivano venduti anche ai forestieri.
Fino ad alcuni decenni fa, l'agricoltura e le attività ad essa connesse, rappresentavano, in molte zone, l'unica fonte di guadagno e di sostentamento per la maggior parte delle famiglie.
Le nostre campagne non versavano certamente in uno stato di abbandono come accade oggi: la terra era diligentemente coltivata e anche i più piccoli lembi delle zone più impervie costituivano una ricchezza per le famiglie, che li possedevano.
La terra era in genere posseduta da ricchi proprietari, che ne affidavano la coltivazione ai coloni.
Il proprietario concedeva il capitale costituito dalla terra e dalle relative immobilizzazioni (fabbricati, piantagioni, ecc.); il colono offriva il proprio lavoro.
I mezzi necessari all'attività agricola (bestiame, attrezzi, tassa fondiaria, ecc.) erano forniti dai contraenti nella misura stabilita dall'accordo o secondo le usanze locali.
Al colono spettava almeno la meta degli utili derivanti dal lavoro, ma non aveva in genere alcun diritto sulle rendite dell'alberatura (ulivi, fichi, ecc.).
La spartizione dei prodotti della terra tra padrone e colono dipendeva anche dalla fertilità o posizione (pianeggiante, scoscesa) del fondo.
I coloni "cialìnari", gr. koinonàrios "socio", lat. colonus) coltivavano la terra direttamente, con l'impiego di manodopera familiare, e, in caso di necessità, facevano ricorso all'opera di braccianti "iornatàri", operai giornalieri.
La retribuzione dei braccianti poteva essere parte in natura, parte in denaro.
Se gli utili ricavati dai coloni erano sufficienti per condurre un vita agevole, non altrettanto si può dire per i braccianti, che avevano un lavoro precario e una retribuzione insufficiente.
Si spiega, quindi, la massiccia emigrazione di tanta povera gente, agli inizi di questo secolo, verso le Americhe in cerca di un maggior guadagno.
Non raro il caso di contadini che, non riuscendo a pagare i debiti contratti per tirare avanti, erano costretti a cedere quella poca terra di cui erano proprietari, che andava cosi ad ingrandire la proprietà di chi gia possedeva vasti appezzamenti di terreno.
Per la rendita principale dei terreni, che era quella olearia, c'era l'usanza di concedere ogni partita di olive in "cabeglia" (ar. qabala "cottimo").
Il proprietario faceva stimare le olive a "tumanu" e le consegnava al colono, il quale faceva la raccolta a sue spese ed era obbligato a corrispondere al padrone 7 litri d'olio per ogni "tumanu" e la meta della sansa.
Se la stima era onesta e l'annata favorevole, il colono ne ricavava un utile, tenendo conto che nella buona annata potevano estrarsi sino a oltre 12 litri d'olio a "tumanu".
Se "u stimaturi" faceva l'interesse del padrone, o l'annata era cattiva, il colono poteva ricavare meno di 7 litri d'olio a "tumanu", ma era ugualmente obbligato a corrispondere al padrone la quantità d'olio pattuita.
Numerose le controversie, che potevano sorgere da questo tipo di contratto.
La vita dei contadini era difficile e faticosa. Levatisi di buon'ora, s'incamminavano, quando era ancora buio, per raggiungere, a piedi, o "ca sumera", il luogo di lavoro lontano a volte parecchi chilometri.
Sul luogo di lavoro si portavano il cibo dentro "a cirma" (gr. ant. Kirba "piccolo sacco"), una specie di sacco di panno ruvido che, legato con una corda, portavano sulle spalle.
"A sumera" cioè l'asina, rappresentava un tempo l'unico mezzo di trasporto e possederne una era indizio di una certa agiatezza.
Naturalmente oltre al mezzo era necessario possedere pure gli accessori, cioè "a capìzza, i cofini" (ceste rotonde e alte per il trasporto a basto, lat.cophinus) e "u mbastu", legato quest'ultimo all'animale, "cù suttapànza e u petturali" .
Per impedire che gli zoccoli dell'animale si consumassero e che, a causa di ciò, diventasse zoppo e quindi inservibile, si provvedeva a "mperràrlu", cioè a fissare dei ferri sotto i suoi zoccoli come protezione.
Per indicare l'estensione di un terreno, si usavano le seguenti unita di misura:
tumanata (circa 33 are), cioè un terzo di ettaro;
menzalorata (equivalente a mezza "tumanata");
quartarunata e stuppedata (equivalenti rispettivamente a un quarto e un ottavo di "tumanata").
Si voleva cosi intendere che in un appezzamento di terreno di una certa misura, si poteva seminare una quantità di semente di grano corrispondente a quella contenuta nelle seguenti misure di capacita per aridi:
tumanu (da ar. tumn, "un ottavo"), equivalente all'ottava parte di una "sarma" ( da lat. sagma), misura per aridi di circa 50 Kg. Ovviamente il peso variava in relazione al peso specifico del prodotto misurato.
E da dire inoltre che le unita di misura differivano da una zona all 'altra talora in modo considerevole.
Nel Napoletano il tomolo equivaleva a 55,5 litri, in Sicilia a 27,5. Menzalora 25 Kg. (equivalente a mezzo tomolo); Quartu 12,5 Kg. circa (equivalente a un quarto di tomolo); Stuppellu 6 Kg. circa (equivalente a un ottavo di tomolo); Stuppellu o "nappu" (germ. hnap "scodella"), 1,5 Kg. circa (equivalente a un ottavo di un quarto di tomolo).
Queste unita di misura altrove potevano avere nomi diversi.
"U stuppellu", ad esempio, in altre zone era detto "mittaru" o "mittu" (gr.emìecton, lat. hemictum "mezzo sestario").
C'erano anche altre unita di misura come "u cantaru" (ar. qintar), peso antico di cento rotoli equivalente a circa 90 Kg. Il "rotolo" (ar. ratl) era equivalente a circa 800 grammi.
Ritornando alle varie attività svolte un tempo dai contadini, e da dire che essi facevano ogni cosa senza l'impiego di macchine.
La semina e la mietitura venivano praticate manualmente; I'aratura e la trebbiatura con l'impiego di animali, in genere bovini.
Prima di seminare essi preparavano il terreno, facendo "u majisi chi voi".
In tempi più antichi impiegavano un aratro di legno che non dissodava il terreno in profondità, successivamente un aratro di ferro, entrambi tirati dai buoi.
L'aratro di legno si componeva del "puntali", cioè del ceppo che conteneva il vomere (lat. punctalis "appartenente alla punta"), e della pertica o "vertica", che erano uniti da un regolatore collocato in posizione verticale detto
"ntigghjiu" (lat. anaticula, ant. fr. antille).
Perché il regolatore non si muovesse durante l'aratura, era tenuto fermo da una specie di cuneo detto "pizzottirriu" o "pizzittirriu" che e deformazione di "zippittirriu" (longob. zippa "piccolo chiodo", v. calabr. zippa "piccolo chiodo per scarpe").
Dal ceppo si partivano, ad una certa distanza dal vomere, due specie di ali che spianavano la terra solcata ed erano dette "pinni" .
La parte superiore della stegola dell'aratro, cioè l'impugnatura, era detta "manuzza" . Su di essa era collocato "u piruni" (gr. peronion "piccolo perno"), cioè un piolo di legno a cui venivano legate le corde con cui era regolato il movimento dei buoi.
Questi venivano aggiogati all 'estremità del timone e portavano dei sottogola, detti "pajuri" (gr. paghion "laccio"), da cui partivano le corde che teneva in mano l'aratore.
Intorno al giogo era collocato un anello di verghe di "stincu" (lentischio. Iat. lestincus metatesi di lentiscus) o di "granatara" (melograno), detto "tortagna", a cui era legato "u hahalu", un vinciglio fatto con verghe dei medesimi vegetali,
che serviva a legare il timone al giogo (pelop. hahalo "ramo secco", gr. ant. dor. halé "chele di gambero").
Un piolo di legno detto "chiovara" veniva inserito tra "hahalu" e timone, perché quest'ultimo potesse stare ben fermo e non si staccasse dal giogo.
Per spianare i solchi e preparare il terreno per la semina veniva impiegato una specie di erpice detto "hjaràrta" (gr. ant. charadra "cancello") fatto di un letto di rami e frasche. Questo veniva tirato dai buoi e su di esso spesso salivano i ragazzini, per appesantirlo ma anche per divertirsi.
La semente, tratta dalla "vertula" (lat. averta "bisaccia") una bisaccia che il contadino portava a tracolla, veniva sparsa nel terreno con un ampio gesto della mano.
Il grano maturo veniva mietuto a mano con una piccola falce detta "cuzzuri" (accorciamento da "cuzzurapanu", gr. kutsodrèpanon "falce piccola"), sotto il sole cocente, iniziando il lavoro all'alba e terminando al tramonto.
I mietitori indossavano pantaloni di tela grezza ed un grembiule di pelle di bue, per non pungersi con le spighe.
Alle mani infilavano guanti, per evitare il contatto con la falce e con le reste del grano.
Iniziata la mietitura, legavano il grano in manipoli che affastellavano in covoni, detti "jermiti" (lat. merges "covone"). Poi lo "arrotavano" infine lo "mfrullavano", nei pressi di un'aria (aia) posta generalmente su un'altura, dove veniva pesato con i buoi e "ventilatu".
Il grano veniva poi macinato nel mulino generalmente ad acqua.
C'era anche un mulino a mano detto "centimulu" (gr. kentomylon "mulino a spinta", da kenteo "spingere") che si metteva in movimento per mezzo di una stanga spinta da una persona.
Altra attività connessa all'agricoltura era quella relativa alla molitura delle olive.
"Trappitari" erano chiamati coloro che lavoravano nel "trappitu", frantoio di una volta (lat. trapetum, id.).
Le olive venivano schiacciate in una pila detta "squèda" (lat. scutella "scodella"), da una o più pietre a forma di ruota, fatte girare da animali.
C'era il "trappitu a genuvisi" ad una sola pietra e quello "a barisi" a tre pietre. Ma c'era anche il "trappitu" a due pietre.
La "squèda" del primo conteneva non più di 4 tumani di olive (una macina), quella del secondo sino a 8 tumani
Mentre nel primo bisognava con una pala spingere le olive sotto la pietra, perché venissero schiacciate, nel secondo venivano spostate dal movimento stesso delle tre pietre.
Una volta che le olive erano state ridotte in poltiglia, veniva aperto uno sportello della "squèda" e fatta scendere la pasta dentro "u mastedu ", recipiente di legno ricoperto internamente di zinco. Questo veniva preso da due uomini e portato presso "a maj'da" (lat. magilla da magis, id.<gr.maghis), contenitore posto non lontano dalla "squèda", nel quale la pasta veniva versata.
Qui veniva messa nelle "sporte", che due operai detti "conzini" trasportavano al torchio detto "conzino" per la prima spremitura. Le "sporte" successivamente venivano trasferite al "conzo" per la spremitura definitiva. Le presse del torchio venivano azionate a mano,
facendo infine ricorso, per la spremitura definitiva, ad un argano azionato da più persone.
L'olio scendeva in una vasca e qui veniva separato dalla feccia acquosa della macinatura, detta "natima" (gr. anatasso "pulire l'olio"), con la "pilla", che era una specie di grosso cucchiaio di latta, fornito di un sottopiatto.
L'olio che ancora galleggiava sulla "natima" veniva separato con la "spica", fascio di spighe delle "cannizzole", che sono piccole canne palustri.
Le unita di misura dell'olio, che come avveniva per le unita di misura per aridi, potevano variare da zona a zona erano le seguenti: "a cortareda" equivalente a mezzo litro; "a cannata", usata anche per misurare il vino, equivalente a 1 litro (gr. volg. kanata da kanna "specie di recipiente"); "umicannu" (gr.emikannion "mezzacanna"), equivalente a 2 litri; "a pignata" equivalente a 5 litri; "u cafisu" (ar. qafiz) equivalente a 12 litri circa, ma altrove giungeva anche sino a 24 litri; "u ricipenti" equivalente a 18 litri; "uterzu" equivalente a 135 litri, cioè a 12 "cafisi",
che era la quantità di quello che veniva detto "nu carricu d'ogghjiu"
Ma in altre zone c'erano anche altre misure. Una di queste e "a litra" gr. litra " libbra"), equivalente a circa 3 litri e mezzo.
L'olio nel frantoio veniva conservato in giare di terracotta della capacità di un "terzo", due "terzi" e tre " terzi" . Per il trasporto si utilizzavano "l'utri" (otri), contenitori fatti con pelle di ovini e caprini.
Gli operai, che lavoravano nel frantoio, avevano competenze differenziate: c'era "u punteri" (chi segna i punti), che era il capo e aveva il compito di raccogliere l'olio, gli "sporteri", che erano addetti al trasporto delle "sporte", e "u palèri", il conduttore dei buoi durante la macinazione delle olive.
Nel frantoio a tre pietre, essendoci più lavoro, c'era anche un "sottopuntèri".
I contadini in genere erano anche dei pastori. La pastorizia da noi non era però praticata come in altre zone dell'entroterra, quali San Luca, dove i pastori frequentavano la montagna e restavano fuori casa per lungo tempo.
Qualcuno possedeva un piccolo gregge, ma si spostava per il pascolo solo nella zona dove risiedeva.
Il latte ricavato veniva riscaldato e ad esso si aggiungeva "u quagghju", per cagliarlo e fare "u casu", il formaggio.
La pasta fresca del formaggio, prima che fosse messa nelle forme, si chiamava "tuma" (prov. toma "sorta di cacio").
Al siero che era rimasto si aggiungeva altro latte, con l'aggiunta di erbe selvatiche e ramoscelli di fico ("naci" dal gr. volg. nakion "arboscello"), e si otteneva la ricotta.
Formaggio e ricotta venivano messi in cestelli di varia grandezza, detti "fascedi", costruiti con steli di ginestra intrecciati.
Per far cagliare il latte, non si usavano un tempo prodotti chimici, ma un prodotto naturale ricavato dallo stomaco del capretto ancora lattante.
Lo stomaco, contenente solo latte, veniva essiccato e cosi si otteneva "u qugghju", che, sciolto in acqua tiepida, veniva aggiunto al latte ed era un ottimo coagulante.
La vita dei pastori non era certo facile a parte la nostalgia di casa che li rendeva cupi, essi pativano il freddo e l'umidità e mancavano dei conforti essenziali.
Tenevano nella loro capanna di frasche, "pagghjìaru", solo l'indispensabile e appendevano i loro attrezzi allo "scalandruni" gr. skalandron "pertica per attizzare il fuoco", un fusto secco con molti rami laterali, detto "stanta", lat. stantem o "ancinaria" gr. volg. ankìni "uncino".
I nostri padri, e ancora di più i nostri nonni, ricordano la vita di paese senza rombi di motori, clacson assordanti, stridii di freni e sgommate, sibili di sirene lontane.
Chiudiamo gli occhi e proviamo ad immaginarla anche noi. Sentiremo lo scalpitio dei cavalli, lo stridore delle ruote dei carri, il "fischiettare" del falegname, il sordo battere del martello sull'incudine.
Ma che cosa rimane della vita di un tempo?
Quasi tutto è andato irrimediabilmente perduto.
Resiste ancora qualche piccola bottega, ma confinata in vicoli oscuri, o in strade di periferia.
È scomparso un esercito di mestieri, di cui resta solo qualche patetica testimonianza in ingiallite riproduzioni d'epoca: il merciaio ambulante, spesso d'origine cinese come quello che girava per le strade del paese quando i nostri
nonni erano ancora bambini, l'ombrellaio, l'arrotino, lo stracciaio, l'impagliatore di sedie, lo stagnino, il tintore.
Tutti irrimediabilmente scomparsi, travolti dalla civiltà dei consumi.
Oggi nessuno più si illude di farsi aggiustare una sedia, riparare un ombrello, affilare un coltello, farsi tingere una stoffa per poi riciclarla.
Desiderio che ritorni il passato? Certamente no, la storia cammina, i tempi cambiano ed è inutile piangere su ciò che è scomparso.
Tuttavia stanno diminuendo anche artigiani indispensabili quali calzolai, decoratori, pittori, idraulici, marmisti, perché sono mestieri non sufficientemente apprezzati e perchè mancano scuole di qualificazione professionale.
Non esiste un impegno serio per il rilancio dell' artigianato. Ma se scompaiono gli artigiani dei servizi, chi curerà le disfunzioni e l'invecchiamento dei prodotti dell'industria?
Ci sono, inoltre, mestieri un tempo in auge e oggi praticati soltanto in qualche paese ancora legato alle tradizioni? come quelli della tessitrice e del vasaio.
Mestieri praticati per lo più da persone di età avanzata, che non attirano i giovani.
Sarebbe un vero peccato che questo genere di mestieri venisse travolto dalla civiltà tecnologica, perchè potrebbe essere ancora utile all 'economia di tante zone e terrebbe unito il filo che ci lega al passato, che non è giusto recidere, perchè è
la che affondano le nostre radici.
Su quali attività si basava l'artigianato di una volta?
Siamo voluti andare alla riscoperta di qualcuna di esse e ne abbiamo trovato due, quella del vasaio e della tessitrice.
Un tempo in ogni paese c 'erano vasai, o "mastri pignatari", che lavoravano la creta da cui ricavavano stoviglie, orci per l'acqua, per l'olio, vasi per la conservazione dei cibi.
Costruivano anche grandissime giare nelle quali veniva conservato l'olio nei frantoi. Esse oggi vanno a ruba per ornare terrazze e giardini.
Dopo essersi procurata la creta, il vasaio la impastava con acqua fino ad ottenere una massa di facile lavorazione.
Poneva poi parte della creta impastata al centro di una forma di legno che, tramite un supporto, poggiava su una ruota di pietra, che veniva fatta girare col piede.
A mano a mano che la ruota girava, l'artigiano modellava la creta con le mani, dandole la forma voluta.
I vasi venivano poi deposti in un ambiente adatto, perché la creta perdesse l'acqua, che aveva assorbito.
Una volta asciugatisi, venivano posti in una grande fornace, attorno alla quale venivano fatti bruciare rami secchi e foglie sino a raggiungere la temperatura di cottura.
Dopo la cottura alcuni venivano smaltati e dopo due o tre giorni erano pronti per la vendita.
Non mancavano le tessitrici, anzi in ogni casa di campagna e in molte case del paese era presente un telaio. Le donne, infatti, tessevano la tela per le lenzuola, le tovaglie, gli asciugamani, che la famiglia usava quotidianamente o che erano destinati alla dote delle figlie.
La dote era come un'ossessione per le madri che avevano figlie femmine e cominciavano a prepararla, quando le figlie erano ancora bambine. "Figghjola nte fasci e a dota nte casci", sentenziava un vecchio proverbio.
Al telaio venivano pure tessute artistiche coperte di lana, di cotone e di seta di vari colori, come pure le "pezzare" con ritagli di stoffa colorata, usate come tappeti o coperte.
C'erano anche le tessitrici di professione che tessevano su ordinazione. Alla attività di tessitura si ispirano alcuni canti popolari che oltre alla bellezza della donna esaltano anche la sua laboriosità:
"....e quandu trasi nta lu so tilaru
mina li botti comu lampi e trona.
E jeu l'amaru, di luntanu stava,
sentia li botti e mi venia mu moru ".
Il telaio è strumento di lavoro molto antico e si compone di una inteleiatura di legno disposta verticalmente e trasversalmente.
Esso era costituito da due subbii, quello posteriore dell'ordito "mbògghja" e quello anteriore della tela. Sul subbio posteriore in un apposito foro era collocata "a calambogghja", regolo di legno che serviva a girare e mantenere
fermo il subbio; sul subbio anteriore in un altro foro simile al primo era collocata "a scirta" o "scistra", specie di manovella che serviva a girare e a stringere il subbio per tenere bene distesa la tela (da gr. mod. dial . sfictra, id. deriv. da sfingo "stringere") Il subbio girava dentro un pezzo di legno incavato detto "palumbèda".
Le altre parti erano "a càscita", cioè la cassa in cui era fissato il pettine (gr."kapsida""cassa"?), i "lizzi" (licci), i "pedalori", dei pedali che, uniti con funicelle ai licci e mossi dai piedi della tessitrice, servivano per aprire e serrare i
fili dell'ordito mentre passava la spola.
Le girelle che mantenevano i licci erano dette "càrici o caricèdi" (gr. aryon "rotolo").
La tela era tenuta ben distesa con applicazione mediante ganci ai lati di essa dei "vocedi o scecchj", che erano dei pesi che facevano da contrappeso ai fili dell'ordito ("vocegli" "giovenchi"; "scecchj" "asini", turco esek, id.).
I pesi una volta erano di terra cotta e avevano la figura di un poliedro con le facce più strette verso l'alto.
Sulle facce portavano incisi ingenui disegni geometrici.
Attrezzo indispensabile al telaio era la "navetta" (navetta), fatta di legno scolpito a mano a forma di barchetta, lunga una ventina di centimetri. dentro cui si collocava la cannuccia "canneda", che girava su un fuscello di legno
alloggiato in appositi fori, che era chiamato "nechèfiu" o "nechièffi" . Altrove era detto "passolu" (gr. passalion).
La tessitrice lavorava scalza, agendo con le dita dei piedi sulle calcole "pedalori". Abbassava un liccio e ne alzava un altro, per aprire la strada alla navetta, con la quale veniva inserito nell'ordito il filo della trama. Ogni filo dell'ordito era detto "nisula o nizula". I fili dell'ordito che rimanevano non tessuti erano detti "pordemia" (gr. prosdemia).
Ad ogni battuta di trama, si svolgeva dal subbio dell'ordito un pò di filo, mentre sull'altro subbio si avvolgeva la tela appena formatasi.
La trama, a seconda dei casi, poteva essere di lino, cotone, canapa, ginestra, lana, strisce di stoffa. L'ordito, per certi tessuti, era di filo di cotone "pintineda"
Strettamente legati alla tessitura erano due attrezzi di legno: "u minuledu" e "u manganedu" .
Il " nimuledu" (gr. volgare anemion, da aneme "arcolaio") era costituito da una specie di ruota, poggiante su un piede detto "pedamulu" (gr. podanemos "piede dell'arcolaio"), attorno al quale veniva collocata la matassa che portava il filo al "manganedu".
L'arcolaio poteva funzionare anche senza "manganedu", con un incannatoio che veniva tenuto in grembo dalle donne e consisteva in un'asta, che veniva fatta girare a mano e la cui estremità inferiore alloggiava dentro un vasetto di legno o pezzo di legno scavato, detto "vàsciula o gàsciula" .
Questo era un sistema più faticoso di incannare rispetto a quello praticato con l'impiego del "manganedu".
Il "manganedu", che erroneamente in alcuni vocabolari dialettalli è tradotto come "filatoio", era uno strumento costituito da una grande ruota di legno che veniva azionata a mano per incannare il filo attorno alla spoletta di canna
"canneda" della navetta e alle spolette più grandi dove veniva, avvolto il filo, che serviva a predisporre l'ordito.
Unita di misura della tela confezionata al telaio era la "canna" (220 cm. circa), ma per comodità si usava un'asta di legno, che corrispondeva alla metà della "canna" ed era detta "menza canna".
Strettamente collegata all'attività della tessitura era quella della filatura, consistente nella trasformazione in filato delle varie fibre tessili naturali, di cui c'era una grande produzione anche nel nostro territorio.
L'allevamento del baco da seta era assai diffuso, dalle pecore si ricavava la lana per le coperte e i vestiti pesanti dei contadini, nonché per altri indumenti invernali, nei campi si coltivavano canapa e lino; le siepi delle colline e i terreni incolti offrivano la ginestra usata per confezionare stoffe ruvide o come trama per tessere al telaio coperte e lenzuoli pesanti.
Mentre le altre fibre vengono ancora utilizzate, anche se con modalità diverse da quelle di una volta, l'uso della ginestra ormai tramontato per sempre.
La ginestra, che ancora abbonda sulle nostre colline, è un arbusto fibroso con dei bellissimi fiori di un giallo vivo.
Di essa si utilizzavano gli steli che, raccolti in piccoli fasci, venivano messi a bollire in una grande caldaia.
Dopo questa prima operazione le donne, per ammorbidirli, li portavano al fiume, lasciandoli macerare per circa otto giorni. Perchè la corrente non li portasse via, li collocavano in buche su cui scorreva l'acqua, coprendoli con delle grosse pietre.
Quando gli steli si erano ammorbiditi e sbiancati, le donne ne prendevano uno per volta e, tenendoli per un capo, li scorticavano con le unghie con un movimento dall'alto verso il basso.
La fibra così ottenuta veniva lungamente e ripetutamente pestata con una mazza di legno su una pietra e sciacquata numerose volte nell'acqua corrente. Si otteneva cosi una specie di stoppa che, una volta asciugata al sole, era pronta per
essere filata col fuso e successivamente lavorata al telaio.
Questo lavoro era assai faticoso, ma in un tempo in cui la povertà era diffusa era questo un modo per procurarsi una materia prima senza spendere danaro.
Anche la fibra del lino e della canapa si ricavava con un processo più o meno simile a quello adoperato per la ginestra.
Oggi nessuno trova più conveniente coltivare lino o canapa, perché i tempi sono cambiati e tela e biancheria si comprano già confezionate.
Era, però, uno spettacolo assai suggestivo contemplare un campo di lino nel periodo della fioritura. Quando le piante erano mosse dal vento, era come vedere lievemente ondeggiare un mare di uno splendido azzurro.
Altra attività, oggi del tutto scomparsa, era l'allevamento del baco da seta, a cui si è gia accennato, trattando dell'abitazione.
Nel periodo primaverile si compravano i "semi" che le donne avvolgevano in una pezzuola di lana, perché stessero al caldo. Le donne usavano anche tenere i semi al caldo nel seno.
Dopo alcuni giorni le uova si schiudevano e nascevano dei piccoli bruchi neri, che venivano collocati in un cesto assieme alle foglie di gelso tagliate minutamente.
Le larve si nutrivano delle foglie per cinque giorni e poi s'addormentavano.
Quando si svegliavano, cambiavano la pelle e riprendevano a mangiare le foglie fresche di gelso. I bruchi "notricata" continuavano a cambiare vestito, mangiare e dormire per quattro volte diventando sempre più grossi. La prima
muta del baco era detta "primu"; la seconda "arteri" (deform. dal gr. deuterion "il secondo"); la terza "triti" (gr. tritos "terzo"); la quarta "casarriu" (gr. kathàrios "puro", "netto").
Nel frattempo erano stati collocati "sull' andito", un'intelaiatura a più piani su cui, quando essi erano pronti per fare il bozzolo, venivano sistemati dei mazzi di ginestra, ampelodesmo "harcia o ddisa" o altre piante "stuppedu",
che costituivano il bosco su cui i bruchi si arrampicavano.
La lunghezza del filo di seta che formava il bozzolo era di circa un chilometro.
Quando il bozzolo era completo, si procedeva all 'operazione dello "scunocchiu", che consisteva nel raccogliere tutti i bozzoli, che successivamente venivano lavorati da persone specializzate per ricavare il filo di seta. Prima della filatura, o
quando i bozzoli venivano messi in vendita, si provvedeva a selezionare i "mogliacchji", cioè i bozzoli venuti male, che nessun compratore accettava, perché non davano origine a seta di buona qualità.
I bozzoli più belli venivano messi da parte e dopo alcuni giorni, vi nasceva una bella farfalla, maschio o femmina. Il maschio riusciva a muoversi agevolmente diversamente dalla femmina appesantita dalle uova, che portava in se. La vita
della farfalla era assai breve e la femmina moriva subito dopo aver deposto le uova, che venivano conservate per la nuova annata.
A parte la seta, che richiedeva un processo particolare di filatura, tulle le altre fibre venivano filate in casa dalle donne.
Della seta, col fuso si filava solo "u calamu" (gr. kalamos "canna"), che era la seta inferiore, cioè quella ricavata dal bozzolo sfarfallato, che si filava come stoppa e veniva poi impiegata per tessere copriletto che i maestri tintori tingevano a vivaci colori.
Veniva pure filata col fuso, previa bollitura dei bozzoli, la seta dei "mogliacchji", filati ad uno ad uno, e la sbavatura dei bozzoli, detta "ari".
La donna calabrese spesso e descritta nella letteratura intenta a filare, seduta davanti alla porta di casa o accanto al focolare durante le lunghe serate invernali.
Oggi e rarissimo imbattersi in una filatrice, e fuso o conocchia, che sono gli attrezzi indispensabili per filare, sono divenuti oggetti da museo, anche perché esistono bellissimi esemplari di questi attrezzi, specie artistiche conocchie.
La conocchia, infatti, poteva essere formata, oltre che da un semplice pezzo di legno, da una sagoma lavorata con arte paziente in genere dai pastori, che trovavano cosi un modo per trascorrere la lunghissima giornata in montagna
lontano dagli affetti domestici.
Esistono conocchie recanti, intagliate alla sommità, statuine dallo straordinario profilo alcune delle quali fanno venire in mente le dee della fecondità degli antichi miti.
Faceva parte della cultura contadina regalare una conocchia alla promessa sposa e ogni giovane si premurava di procurarsi o costruire con le proprie mani una conocchia, che non lo facesse sfigurare, sulla quale incideva le iniziali del nome della fanciulla di cui era innamorato.
L'altro attrezzo necessario per la filatura era il fuso costituito dalle seguenti parti: "fartìcchju" (lat. verticulus), il verticello che teneva il filo; "ciampareda" (gr.spondolaria), il fusaiolo superiore; "scindili o sfundili" (gr.spondylion), il fusaiolo inferiore; "cànnula" (gr. volg. kànula "cannello"), asta del fuso.
Il fuso era talmente importante nella vita della famiglia di un tempo, da indurre un giovane innamorato a paragonare la sua amata, in un bellissimo canto popolare, proprio all'asta del fuso:
"Cc'avanti c'è na figghja di massaru
chi risimigghja a na cannula d'oru"
Dei mestieri di una volta ne sopravvivono solo pochissimi.
Uno è quello del falegname, anche se oggi questi artigiani costruiscono per lo più porte ed infissi e non mobili, come un tempo facevano gli ebanisti, che erano i falegnami specializzati nella lavorazione del noce ed altri legni di pregio.
Oggi è diffusa la tendenza di valorizzare i mobili di fine Ottocento. tutti costruiti a mano e con caratteristiche proprie rispetto ai mobili costruiti in serie.
Esiste ancora tra gli anziani qualche fabbricatore di ceste "u cofinaru" (lat. cophinus), che usa come materia prima canne, virgulti di "agghjastru" (olivo selvatico dal lat. oleastar) e di salice, oltre a steli di "ligunia" (vibalta, gr. lygonia da lygos "vimine")
Altro mestiere non del tutto tramontato è quello del calzolaio. Oggi, però le scarpe vengono fatte nelle fabbriche ed il calzolaio, che una volta faceva a mano, si limita a riparare, rifacendo i tacchi e le mezze suole.
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